<1865-1934>
Figlia del senatore Giovanni Codronchi Argeli e di Giulia Pizzoli, Eugenia trascorse gran parte della sua vita nel piccolo paese di Castel San Pietro nei pressi di Imola, nella villa di famiglia distrutta durante il secondo conflitto mondiale. Fu giornalista brillante e prolifica, autrice di poesia, romanzi e novelle e nei suoi scritti si rivelò maestra nell’analisi della società contadina romagnola come dell’alta società.. La giovane Eugenia ebbe la fortuna di crescere con “un’educazione vasta e completa (linguistica, letteraria, filosofica e musicale), avvalorata profondamente dall’affettuosa confidenza di Giosuè Carducci, che di casa Codronchi era ospite e amico” come ricorda Dionisio Dall’Osso in un raro ritratto della scrittrice. “Ciò che della scrittura di Sfinge colpisce il lettore moderno sono l’anticonformismo e lo spirito arguto che si rivela soprattutto nelle novelle, in particolare nelle raccolte” (1924), in cui la scrittura modernista ha i suoi esiti più felici. Come suggerisce l’originale pseudonimo di Eugenia – che non era piaciuto a Enrico Panzacchi, il quale non riscontrava “nulla di sinistro, nulla di enigmatico” nella scrittrice romagnola – il lettore di Sfinge è costretto a confrontarsi con intrecci solo all’apparenza lineari e coerenti, ma che in realtà nascondono enigmi e ambiguità. Dopo tutto, tutta la vita di Sfinge fu ambigua e enigmatica. La lunghissima relazione con Bianca Belinzaghi (conosciuta negli ambienti artistici e letterari con lo pseudonimo di Guido da San Giuliano, 1861-1943), interrotta solo alla morte di Eugenia nel 1934, ne è prova tangibile. Fu amore? Con tutta probabilità sì, sebbene chi si è occupato di Sfinge la definisca non più di un’amicizia straordinaria: lo testimoniano la corrispondenza e gli affettuosi testamenti di Eugenia (che a Bianca lasciò quasi tutto il suo patrimonio). Eugenia e Bianca condussero una vita privilegiata fatta di viaggi, salotti, musica e letteratura e intrattennero numerose e durature amicizie importanti nell’ambito dell’ambiente culturale italiano e europeo.
Una autrice contemporanea, Mara Antelling, definì Sfinge una “gran signora con l’abitudine alle cose squisite e signorili, mentre si sente fremere in lei tutte le audacie de’ nuovi tempi in un contemperamento originale e simpatico”. Antelling morì nel 1904 ma la sua intuizione era corretta: Sfinge non prese la strada dello sperimentalismo alla Virginia Woolf, preferendo un modernismo di matrice più cautamente italiana, più pirandelliano se vogliamo trovare un termine di paragone, ma nella sua scrittura è semplice riscontrare le ambiguità e gli atteggiamenti (cautamente) trasgressivi e ribelli tipici dell’epoca. Oggigiorno una piacevolissima sorpresa è riservata agli studiosi della letteratura delle donne fra Otto e Novecento – e agli studiosi di Sfinge in particolare – che visitano la Biblioteca Comunale di Imola: l’archivio completo della corrispondenza e delle carte manoscritte di Sfinge e di Bianca Belinzaghi, grazie a un lascito delle due donne. Troppo spesso gli archivi della memoria delle donne dei secoli precedenti sono andati distrutti o perduti. Questa eccezione ci sembra degna di nota.
FA G 31 004 017, sul frontespizio nota di possesso ad inchiostro nero: Sfinge